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giovedì, ottobre 11, 2007

Sandor Kocsis.

ATTENZIONE: il seguente racconto, pubblicato su www.narab.com, si riferisce agli ultimi attimi di vita di uno dei più grandi attaccanti nella storia del calcio. È narrato in prima persona, non vi è tuttavia modo di verificarne l'autenticità. Buona lettura.

Speriamo che quel sedativo faccia effetto in fretta, perché non ne posso più. Ho un dolore terribile, mi sembra di avere inghiottito dei chiodi, o del vetro. Non pensavo che si potesse provare un dolore così. Non riesco a muovermi, ma anche stando fermo sento questa specie di trapano che mi ferisce lo stomaco. Vorrei abbandonarmi un po’, lasciarmi andare ai ricordi, ai rimpianti della mia vita, vorrei appoggiare la testa al cuscino, e non fare niente, nemmeno pensare. Sono stanco, sono stanco di tutto, anche della mia stessa vita. Com’è tutto ingiusto… io non ero così, io ero una persona allegra, mi piacevano le ragazze, mi piaceva il vino, magari in compagnia dei miei amici. E soprattutto mi piaceva la vita! Era cominciata bene la mia vita, era stata una bella vita, fino a quel maledetto giorno di luglio. Ecco, la mia vita è stata come una montagna altissima, prima sempre più su, sempre più su, sempre più su. Poi, appena un attimo prima di toccare la vetta, quando ho appena sentito la sensazione inebriante di toccarla, è cominciata la discesa, sempre più rapida, sempre più spaventosa, fino ad arrivare ad ora, in questa calda serata di luglio, in questo ospedale, con questa bestia schifosa che mi sta mangiando lo stomaco. Ecco, per fortuna il sedativo sta facendo effetto. Che bello, posso appoggiarmi al cuscino, chiudo gli occhi, e respiro, lentamente.

La montagna della mia vita. Credo che pochi abbiano avuto la fortuna di vivere i momenti esaltanti che ho vissuto io, ma sono pochi anche quelli che hanno vissuto i miei grandi, devastanti dolori. Io sono stato un grande calciatore. Io sono Sandor Kocsis, sono stato un grande goleador negli anni 50, ed una delle stelle di quella che è stata definita ‘La Squadra d’Oro’ in patria, e ‘La Grande Ungheria’ all’estero. Mi chiamavano ‘Testina d’Oro’, perché nonostante non fossi particolarmente alto, ero fortissimo nel gioco di testa. Dio, che meraviglia quella squadra! Dal 1950 al 1954 non perdemmo neanche una partita. E che incontri memorabili, giocammo! Fummo i primi a vincere a Wembley contro l’Inghilterra, ma più che una vittoria fu un trionfo, 6-3 per noi, con il pubblico inglese che prima ci accolse con gli insulti, e poi ci salutò tra gli applausi. Quei poveri inglesi li maltrattammo anche nell’amichevole che giocammo a Budapest, 7-1 per noi. Vincemmo a Roma contro l’Italia, 3-0, inaugurando lo stadio Olimpico, e vincemmo le Olimpiadi di Helsinki, nel 1952. Quattro anni di trionfi, di splendido gioco, di divertimento. Eh sì, perché noi ci divertivamo, scendendo in campo. A volte, quando giocavo, avevo l’impressione di dipingere una tela, o di suonare uno strumento musicale. E quando tutti e undici scendevamo in campo e cominciavamo a disegnare azioni, avevo l’impressione che più che una squadra di calcio fossimo un’orchestra perfettamente amalgamata, e che più che su un campo di calcio, fossimo in un teatro, con il pubblico che ci ascoltava estasiato. Andavamo d’accordo, tra di noi. In quella squadra c’erano fior di campioni. C’era il colonnello Ferenc Puskas, c’era il deputato Bozsik (solo i regimi comunisti dell’epoca potevano non sentire quanto ridicolo fosse nominare colonnello la mezzala e deputato il capitano della nazionale!), c’era Hidegkuti, Czibor, il portiere Grosics, e c’ero io, Sandor Kocsis, testina d’oro. L’allenatore era Gustav Szebes, una brava persona, oltre che un ottimo allenatore. Un giorno che restammo senza un centravanti di ruolo, ebbe l’intuizione di far giocare con il 9 Hidegkuti, che era un regista, inventando così il centravanti arretrato, e mandando in crisi il centrocampo e le difese avversarie per anni. Erano belli quegli anni. Sì, il regime rompeva non poco i coglioni, ma a noi, i componenti della Grande Ungheria ci portava in palmo di mano. E poi a me la politica non è mai interessata, mi piacevano le ragazze, possibilmente se diverse ogni volta, mi piaceva bere con gli amici, mi piaceva divertirmi con un pallone tra i piedi, mi piaceva saltare ogni volta più in alto, arrivare a colpire il pallone là dove difensori altissimi non sapevano arrivare.

Nel giugno del 1954 si aprirono in Svizzera i campionati del mondo di calcio, i ‘nostri’ campionati. Eravamo noi i più forti, e qualunque risultato diverso dal nostro trionfo sarebbe stato clamoroso. Cominciammo secondo pronostico, rifilando nove gol alla Corea del Sud, poi battemmo per 8 a 3 la Germania Ovest. Sì, è vero, i tedeschi avrebbero passato ugualmente il turno e schierarono le riserve, ma furono sempre otto gol contro tre! Naturalmente ci qualificammo per i quarti di finale, dove affrontammo il Brasile. E qui la cosa diventò meno agevole. I brasiliani erano ancora sotto choc per la sconfitta di quattro anni prima, e ci misero l’anima, e anche qualcosa di più. Insomma, non fu una partita, fu una corrida, una battaglia, una caccia all’uomo. Li battemmo i brasiliani, quattro a due, con due gol miei, ma che fatica! A fine gara scoppiò una rissa gigantesca, con bottigliate, cazzotti, insulti per tutti, ma intanto avevamo vinto. Poi arrivò la semifinale, con i campioni del mondo dell’Uruguay. Qualcuno definì quella partita come la più bella partita mai disputata nella storia, e forse ebbe ragione. Pioveva forte quel giorno a Losanna, ma dagli spalti nessuno se ne accorse, tanto fummo bravi, noi e gli uruguayani. Fu l’esatto contrario della partita giocata col Brasile, fu un incontro corretto, cavalleresco, dal quale, noi e loro, uscimmo abbracciati. All’inizio del secondo tempo eravamo sul due a zero per noi, e sembrava fatta, ma loro riuscirono a pareggiare, e, a due minuti dalla fine, un tiro di Schiaffino che stava entrando in rete, fu fermato da una pozzanghera. Arrivammo ai supplementari, e nel secondo tempo segnai io i due gol che valevano la finale. Eravamo distrutti, le due partite contro Brasile e Uruguay ci avevano letteralmente demolito i muscoli e la mente, ma bastava solo uno sforzo, un piccolissimo sforzo. In finale avremmo incontrato di nuovo la Germania Ovest, via, l’avevamo già umiliata qualche giorno prima, era una squadra priva di campioni, priva di fantasia, che fastidio avrebbe potuto darci! E’ vero, mentre noi spendevamo tutte le nostre energie contro due squadre di altissimo livello come Brasile e Uruguay, loro avevano scherzato contro Jugoslavia e Austria, ma noi eravamo l’Ungheria, la Grande Ungheria, la squadra che non perdeva da più di quattro anni!

Entrammo in campo a Berna, quel maledetto quattro luglio 1954, che eravamo già esausti, aggrappati con i denti ad un briciolo di volontà. E cominciò bene, la nostra partita: dopo otto minuti eravamo già sul 2 a 0 per noi. Ma eravamo stanchi, dio come ricordo ancora perfettamente quella totale, assoluta stanchezza che ci aveva preso. Dopo dieci minuti loro avevano già pareggiato, e fu con il loro pareggio che mi venne da pensare che forse, non ce l’avremmo fatta. Ecco, fu lì che intravidi la vetta della mia montagna, ma fu lì che capii che non l’avrei mai raggiunta, quella vetta. Rahn segnò il 3-2 per loro a sei minuti dalla fine, e non ce la facemmo a pareggiare. Rientrammo negli spogliatoi increduli, ma eravamo talmente stanchi che non riuscimmo nemmeno a piangere. Che atmosfera, in quello spogliatoio. Solo dopo ho capito che tipo di atmosfera fosse: un’atmosfera di morte.

E poi? Poi continuò la discesa sempre più inesorabile dalla mia montagna. Nel 1956 il mio popolo fu violentato dall’invasore. Io non mi ero mai occupato di politica, ma mi piaceva la nuova classe dirigente, meno ingessata, meno stupida dell’altra. Ma è destino che sia la stupidità, ad essere premiata. I sovietici invasero il nostro paese, rimettendo al potere i vecchi dirigenti e distruggendo un popolo, la sua volontà, la sua voglia di riscatto. Noi dell’Honved (la squadra di Budapest che dava quasi tutti i titolari alla nazionale) fummo mandati in tournée in Europa per far vedere che tutto era come prima, che niente era successo. Ma capimmo che era finito tutto, che la bella favola che avevamo cominciato, che era stata interrotta quel 4 luglio 1954, non sarebbe mai arrivata alla fine. Quando ci richiamarono in Ungheria, quasi nessuno rientrò, me compreso. Rimasi in Svizzera, a Berna. Avevo conosciuto il presidente della squadra locale, lo Young Boys, che mi propose di giocare con loro, ma la federazione ungherese non diede il nulla osta. Così mi venne offerto un impiego di rappresentante di elettrodomestici, ma i soldi erano pochi. Riuscii, facendo corrompere le guardie di frontiera, a farmi raggiungere da mia moglie Alice e dalla mia bimba, Agnese. Che anni terribili, quelli. Cominciai a bere di brutto, e una sera toccai il fondo facendomi arrestare a Zurigo per ubriachezza. Non avevo nemmeno i soldi per l’avvocato, e fu un mio amico a prestarmeli. In una sera particolarmente nera, diedi un bacio alla mia bimba, a mia moglie, e inghiottii un intero tubetto di barbiturici. Mi presero per i capelli, e mi salvai. Dopo qualche anno la federazione ungherese diede finalmente il nulla osta, e potei giocare nello Young Boys. Lo feci portando il lutto al braccio per tutto il campionato, in onore del mio popolo offeso. Ma non fui più quello di prima. Se prima il calcio era per me desiderio di divertirmi, voglia di vivere, adesso era solo la possibilità di dare a me e alla mia famiglia un’esistenza almeno degna. Non esultai mai più, né per i gol, né per le vittorie. Mi trasferii a Barcellona, ma la strada che mi allontanava dalla vetta della mia montagna era sempre più ripida, sempre più veloce. Ormai il destino mi aveva battuto e umiliato, più di quanto non fosse mai riuscito a fare alcun difensore. Se sono arrivato fino qui, lo devo soltanto all’amore delle mie donne, di Agnese e di Alice, l’unica, vera grande vittoria della mia vita.

Da qualche settimana ho cominciato a sentire dolori allo stomaco, sempre più forti, sempre più insopportabili. Mi hanno ricoverato in questa clinica, a Barcellona, e hanno cominciato a farmi esami su esami, visite, controlli. Ma non ho bisogno di aspettare gli esiti. So che ho una bestia dentro. Ho sempre avuto una bestia dentro, fin da quel maledetto 4 luglio 1954. Una bestia che prima ha mangiato il mio animo, la mia allegria, la mia voglia di vivere. E che adesso ha cominciato a mangiare la mia carne.

Ecco, l’effetto del sedativo sta scomparendo. Dio, che dolore insopportabile. Mi piacerebbe abbandonarmi, sentirmi stanco, nel corpo e nella mente, come quando rientrai negli spogliatoi di Berna, dopo aver perso con la Germania. Ma non ci riesco.

Mi alzo. Ogni passo che faccio è una pugnalata nello stomaco. Arrivo alla finestra e la apro. Mi investe un vento caldo e umido, si sente anche l’odore del mare. Guardo giù. Non so a che piano sono, ma spero proprio di essere in alto abbastanza.

2 Comments:

Anonymous Anonimo said...

Bello e commovente.

10:33

 
Blogger Musashimaru said...

Skin deep, maestro: il piacere è tutto mio.

15:05

 

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